Il Gruppo di lettura “Parole in Giardino” si è incontrato in presenza e in collegamento online su Skype il 16 maggio 2024 presso la sede dell’Associazione SmartLab Europe a Pescara.
Le lettrici del GdL hanno condiviso, come al solito, pensieri, emozioni e riflessioni sulla lettura del romanzo “ Resisti, cuore – l’Odissea e l’arte di essere mortali” di Alessandro D’Avenia.
Le lettrici del gruppo hanno affermato di essere rimaste colpite molto positivamente dalla rilettura dell’Odissea effettuata dallo scrittore Alessandro D’Avenia. Alcune di loro hanno raccontato l’esperienza di aver assistito il 19 aprile presso il Circus di Pescara ad un suo intervento, organizzato dal FLA e diretto agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado ed hanno descritto di come lo scrittore fosse stato coinvolgente nel dialogo serrato incentrato sul libro sapendo creare naturalmente una relazione con i ragazzi presenti.
Sono emerse, inoltre, numerose considerazioni di come la lettura del libro sia stata coinvolgente, profonda e capace di offrire vari spunti per ripercorrere le varie tappe del viaggio di Ulisse e del proprio viaggio interiore.
L’incontro si è svolto, come consuetudine, con un ricco confronto dei diversi punti di vista, riflessioni e suggestioni che hanno animato una interessante discussione.
INCIPIT
Per imbarcarsi in un poema di mare e isole è opportuno disporre di una nave ben equipaggiata. Procurarsi le mappe, controllare gli strumenti di bordo, verificare l’abbigliamento e fare cambusa, come si dice quando ci si prepara a prendere il largo per giorni. Sono operazioni a volte noiose, ma da non sottovalutare: ne va della vita di chi si trova a bordo. La prima cosa su cui concentrarsi sono le parole di questo poema. Trattandosi di racconti orali maturati nel corso di secoli a cavallo tra secondo e primo millennio a.C., cuciti in forme coerenti e più o meno stabili nell’VIII secolo a.C. e messi per iscritto nella forma in cui li conosciamo ad Atene nel VI secolo a.C., la lingua di questo poema è un impasto creato ad arte di dialetti riconducibili a una lingua che ha forgiato l’Occidente: il greco antico. Ho imparato ad amarlo da adolescente, quando ho scoperto che è una lingua di precisione e di creazione. Non è stato un amore a prima vista, ma la felice elaborazione di una ferita ricevuta nella mia prima interrogazione alle superiori. Erano i primi giorni del primo anno di liceo classico, che avevo scelto per tradizione familiare (genitori e due fratelli prima di me) e altrettanta curiosità. La temibile professoressa, che chiamava alla cattedra estraendo i numeri della tombola, visto che eravamo all’inizio dell’anno, decise di chiamare me perché avevo lo stesso cognome di un suo ex alunno molto bravo (per l’appunto uno dei miei fratelli…). Avevamo studiato solo gli articoli e io, sicuro di me, li recitai a memoria (o e to tou tes tou…); suonavano come una di quelle filastrocche o scioglilingua dell’infanzia: “Apelle figlio d’Apollo…”, “Trentatré trentini…”, “Ponte Poronte Ponte Pì…”. Poi la professoressa mi chiese di scriverli alla lavagna, e mi arrangiai credendo che scegliere una omicron o un’omega fosse lo stesso, tanto sempre “o” suona. Sì, va bene: una è breve e l’altra lunga, ma sono sfumature. E poi non avevo indicato gli accenti in modo preciso, convinto che segnarne la direzione verso sinistra o verso destra fosse lo stesso. Gli spiriti (utili a far sentire le aspirazioni) non li avevo proprio considerati: che vuoi che cambi se hanno la gobba a sinistra o a destra (spirito aspro o dolce), mica devo parlarla questa lingua. Inorridita di fronte al mio pressapochismo da scuola media, la professoressa mi mandò al posto dicendomi con freddezza: «Meriteresti 4, ma visto che è la prima interrogazione soprassediamo». Tornai a casa disperato, certo di aver sbagliato indirizzo; e invece non avevo ancora capito con che lingua accurata avevo a che fare: migliaia di segni ad altissima definizione, come un impianto dal sonoro perfetto per ascoltare la musica del mondo. Infatti poi quella lingua l’ho sposata, con una laurea e un dottorato in letteratura greca (tema in entrambi i casi? L’Odissea) con grandissima gioia, grato per la fetta di mondo che mi aveva donato. Non esistono lingue migliori di altre, lingue più votate al pensiero o all’azione, lingue geniali e lingue banali, lingue che aprono la mente più di altre; casomai esistono opere capaci di farlo, e sono scritte in una lingua che hanno saputo sfruttare al meglio. Non sono le lingue in sé a cambiare il mondo, ma gli autori che le usano per raccontare la vita in modo vero e inedito: mettono al mondo il mondo nella carne delle parole. Tutte le lingue sono variazioni musicali sul tema della vita, tutte sono quindi necessarie, ma non tutte sono state studiate e approfondite come quelle antiche. Questo le rende così ricche, come strumenti affinati nel corso dei secoli. Ogni lingua porta il segno dell’incontro tra l’uomo e il mondo. Babele in questo senso non rappresenta una punizione ma un dono che implica un compito o un destino: essere affascinati dalla differenza e mettersi in ascolto degli altri a partire dal fatto che (ancora) non li si capisce. I Greci per esempio, che dalla luce facevano dipendere la verità, consideravano tutto in base alla sua quantità e qualità sulle superfici. Il loro mare è “di porpora”, non tanto per la tinta viola scarlatto che assume al tramonto, ma perché “purpureo” indicava l’incidenza della luce su quel tessuto in movimento. Il mare di porpora (o “color del vino”, come molti amano tradurre) è un mare che cambia continuamente colore in base alla rifrazione della luce: cangiante. Il mare è di volta in volta blu, azzurro, arancione, bianco… per un greco queste potenzialità erano racchiuse in un’unica parola. E la parola per nominare il mare? In greco ce ne sono quattro che appartengono a generi diversi. Due sono maschili (genere animato che privilegia il fare): hals, il sale (che serviva a conservare i cibi, a curare le ferite e poi anche come paga: il famoso salario), quindi il mare come distesa salata; e pontos, il ponte, il mare da attraversare: ciò che unisce, passaggio d’acqua tra le terre. Un termine è neutro (il genere che indicava ciò che è inanimato): pèlagos, l’abisso, l’immensità o alto mare (ne rimane traccia nel nostro uso metaforico: un mare di guai). Infine uno è femminile (genere animato che privilegia l’essere): thàlassa, il mare come cosa viva e mutevole. Quattro segnali di precisione, quattro possibilità in base al rapporto che si ha con l’elemento che copre la maggior parte del globo.
Abbiamo iniziato l’incontro esprimendo le parole chiave del romanzo raccolte in un unico pannello.
Come di consueto, riportiamo di seguito alcuni appunti di discussione e di approfondimento utili per chi ha partecipato e per chi non ha potuto partecipare, per chi ha letto il libro e per chi non ha potuto leggerlo.
L’approfondimento che l’Autore fa dell’Odissea è stato per me ricco di nuove conoscenze e di spunti nonostante avessi letto il poema omerico sia in versi (a scuola) che in prosa. Ho scoperto innanzitutto che, in base a recenti studi, il cavallo di Troia, passato alla storia come il feroce inganno di Ulisse per conquistare la città troiana, in realtà non era un cavallo ma una nave, con buona pace di tutte le rappresentazioni artistiche di oltre 2000 anni. L’equivoco è derivato dal nome Hippos , in greco cavallo, che era il nome di un tipo di nave ( fenicia) che aveva la prua scolpita a forma di testa di cavallo, e dal fatto che donare una nave al nemico – secondo la prassi dell’epoca – rappresentava un omaggio in segno di resa e di pace.
La rilettura dell’ Odissea in Resisti cuore mi ha fatto mettere meglio a fuoco il concetto di meraviglia, che non va considerato solo come stupore per una cosa bella (archiviamo per carità “open to meraviglia”!) ma anche come dolore, lutto, morte, abbandono, tradimento, malattia. D’Avenia, richiamando puntualmente i classici greci e medioevali, spiega che la meraviglia nasce dal valore del racconto (filomitia) che risveglia nell’uomo la consapevolezza di essere mortale. Infatti il filo conduttore dell’Odissea è il viaggio esistenziale dell’uomo in tutti i suoi aspetti: la perdita, la paura, la disperazione, situazioni queste che suscitano meraviglia ma che attraverso il racconto risvegliano il coraggio e la spinta a rinascere.
Anche il concetto di nostalgia mi impone una riflessione: scrive l’Autore che nostalgia e’ un sentimento non tanto rivolto al passato e percepito semplicemente come una mancanza, piuttosto una spinta a cercare ciò che oggi manca perché non ci si accontenta dello stato delle cose: “Itaca non è un souvenir, ma un avvenire, non è un oggetto ma un progetto”. Al pari di Ulisse che cerca soluzioni alle avversità, D’Avenia – docente di italiano al liceo – lotta per una scuola diversa da quella a cui siamo abituati. Penso che il nostro Autore rappresenti il professore che tutti sogniamo per i nostri ragazzi, per la passione e per la cura che si prende degli allievi sollecitandoli attraverso interventi didattici, teatrali e letterari a liberarsi da maschere che li rendono meno autentici. A proposito di giovani mi è piaciuto molto il richiamo alle parole di Atena a Telemaco “smettila di fare il bambino “, esortandolo con una serie di indicazioni a mettersi in viaggio per avere notizie di suo padre Ulisse. Il richiamo è molto importante perché spesso gli adolescenti hanno paura di non farcela e si rifugiano in vari alibi per non affrontare processi di crescita.
Nel commentare il XX canto in cui Ulisse ancora sconosciuto assiste sdegnato ai comportamenti dei pretendenti, D’Avenia spiega indirettamente il titolo di questo libro: resistere non significa rassegnarsi ai fatti e subirli, ma comportarsi come chi padroneggia la situazione e va incontro al mondo grazie alla sua capacità “identificata nel suo cuore” che contiene le energie vitali e stimola a sua volta il coraggio di agire.
Leggendo questo libro ho notato una certa sintonia di D’Avenia con un altro scrittore che più volte abbiamo incontrato nelle letture e nelle discussioni organizzate da SmartLab Europe, #CristianoMarcucci. Commentando l’incontro di Ulisse con la madre Anticlea e con l’indovino Tiresia, D’Avenia scrive “prima o poi tutti facciamo l’esperienza della morte e come Ulisse possiamo tornare più saldi nella vita se abbiamo il coraggio di affrontare questi incontri”.
Come non pensare alle molte occasioni in cui Cristiano Marcucci ha dimostrato che portando allo scoperto una zona di dolore ancorata al passato si diventa più consapevoli (valga per tutte “Le nove impronte dell’anima”). E ancora, riflettendo sulle lacrime di Ulisse quando racconta le sue avventure ad Alcinoo, re dei Feaci, D’Avenia afferma che “senza racconto un vissuto non diventa esperienza”, penso al libro i Dannati, in cui Cristiano Marcucci ci dimostra come il viaggio di Dante nella Divina commedia chieda di toccare la proprie ferite per rinascere.
Daniela C.
Ho apprezzato la rilettura di tipo esistenziale che l’autore ha dato dell’ Odissea, che in vari punti mi ha fatto riflettere sul valore universale di questo poema: in questo senso davvero siamo tutti Ulisse, tutti navighiamo nel tribolato mare dell’essere in un viaggio che è labirintico e nello stesso tempo circolare, di ricerca e di ritorno alle origini, di desiderio e di nostalgia.
Ho molto apprezzato, in particolare, le riflessioni nate a margine delle parole e del loro significato, sia etimologico sia d’uso, dentro le quali D’Avenia scava con fine competenza.
Non ho apprezzato, di contro, la continua invasione di campo dell’autore nella sua totale soggettività, di uomo reale, del quale in definitiva poco interessa, io credo, al lettore, conoscere i dettagli di vita. Ogni volta che mi trovavo, concluso il racconto delle vicende di Ulisse e la sua spesso illuminante interpretazione, davanti alle parole “Anche io…” provavo un fastidio via via crescente. La mia sensazione era che il dialogo che fino a quel momento l’autore era riuscito a far vivere, felicemente, tra me e il personaggio di Ulisse, tra la sua interiorità e la mia, venisse soffocato dal suo protagonismo invadente. Tanto più che D’Avenia non fa mistero della ideologia che orienta la sua lettura, ideologia che però, così continuamente esibita e in modo così ridondante, io credo che finisca per allontanare del tutto il lettore che non la condivida.
Non ho apprezzato, per le stesse ragioni, quella frase infinite volte ripetuta: “A una piega dalla verità” con le sue varianti “A una piega dalla vita” e “A una piega dalla realtà” che alla fine diventa un fastidioso e retorico clichè stilistico. Forse voleva essere una specie di leit-motiv, ma io l’ho trovato irritante. E non solo perché ripetuto continuamente, ma perché a mio avviso vuole indurre il lettore a dare un credito assoluto, di verità priva di dubbio, alla interpretazione che introduce. Un esempio tra i tanti: “(…)il viaggio, a una piega dalla verità, è la metafora migliore del travaglio, la (pro)crezione di se stessi”. E a seguire, ecco che si impone la voce di D’ Avenia-uomo: “Questo libro lo sto scrivendo proprio per rispondere a domande simili: come ti chiami? Quanto e per chi hai sofferto? Che ne fai della tua vita? Quanto sei nato? Tradotto nel linguaggio narrativo di Omero: qual è stato il tuo viaggio fino a adesso e dove punta?”. In definitiva, credo che il libro si sarebbe giovato di una scrittura meno scopertamente soggettiva ma anche più snella e più sintetica, capace di far risaltare i molti spunti di riflessione che offre, senza volerli per forza incanalare entro un “sistema” ideologico in cui non tutti possono o vogliono riconoscersi.
Rosalaura B.
Magnifico questo libro di D’Avenia!
D’avenia ha un linguaggio, ricco, scorrevole e meraviglioso e si serve di tutto ciò che l’arte dello scrivere mette a disposizione dello scrittore: metafore, riflessioni, approfondimenti dei vari argomenti, magari appena accennati e poi ripresi. Il suo è un raccontare raffinato che presenta a volte attimi di poesia, di ritmo e di musicalità.
Ulisse, il personaggio che lo affascina, è un eroe anche moderno: ciascuno di noi, come Alessandro D’Avenia dimostra, potrebbe essere un Ulisse nel viaggio tormentato che ogni individuo potrebbe compiere nel suo intimo travaglio per tornare al suo “io” primitivo o a un “io” fatto di maturità dell’anima o della mente considerata come la direttrice del nostro esistere quotidiano e la fattrice del nostro destino. Troppe volte durante la nostra vita ci siamo domandati dove una nuova decisione ci avrebbe condotto, o una scelta di vita o di lavoro sarebbe stata per noi ottimale o negativa tanto da sprofondare i nostri giorni in una incertezza senza via d’uscita. Risale ai miei 1dodici anni la lettura dell’Odissea . Se ne discuteva in classe con l’insegnante e nel racconto di questa storia di guerra superata e di rinascita trovavamo un po’ di noi stessi. Consapevoli di dover costruire un futuro , ancora incerti sul come procedere e quali esempi seguire. Questa storia di Ulisse che ritorna alla sua terra ci apparteneva, la sentivamo anche nostra.
Questo di D’Avenia non è un libro qualsiasi, non è un romanzo autobiografico, anche se partendo dal racconto delle peripezie di Odisseo, l’autore contrappone all’esperienza di Ulisse la propria esperienza di vita, dimostrando grande padronanza dell’analisi psicologica del proprio vissuto e delle sue emozioni. Arricchisce il suo presentarsi al lettore come l’esame dei propri errori( quindi della propria umanità) e soprattutto, cosa che mi ha colpito positivamente, dando importanza alla sua fede e a quanto il far ricorso a questa sua fiducia nell’aiuto divino entro i dettami della morale cattolica, gli abbia dato l’energia e la capacità di comprendere se stesso e gli altri; e nel tempo del formarsi della propria coscienza, abbia potuto orientare la sua ita verso il resistere o riesistere; verso la piena coscienza di sé per raggiungere il proprio compimento esistenziale.
Queste annotazioni personali, a volte “strappate” al profondo del suo essere, mi pare diano la misura della sua sincerità e del suo desiderio di fare cosa utile per il lettore. Si legge non solo per trascorrere piacevolmente qualche ora ma soprattutto per imparare ( almeno per me) dall’esperienza altrui.
Rileggerò l’Odissea. Chissà che anche io non riesca a perdonarmi gli errori commessi nel mio lungo cammino e a conquistare l’arte di essere mortale.
Federica Z.